APPROFONDIMENTI. Dall’evidence-based design allo spazio di detenzione: il concetto di healthy prison

di MATTEO ARICÒ
architetto

Una delle caratteristiche più significative del Tempo in cui viviamo è sicuramente la possibilità di rapido spostamento, valga ciò per un pacco, una idea, un virus, un essere umano. Entrare a contatto velocemente, senza filtri e tempi di adattamento, è sì stimolante ed eccitante, ma può risultare anche straniante, fino ad alimentare tensioni e sensazioni di insicurezza. La diffidenza verso l’Altro, inevitabile, può diventare paura ingiustificata se alimentata da narrazioni fuorvianti e faziose, il cui risultato è spesso la disconnessione emotiva, o perdita di empatia, verso tutto ciò che non fa parte del nostro pensare abituale.

I carcerati ed il carcere, come altre categorie di Ultimi, non entrano nel nostro pensare abituale e non sono raccontati dalle riviste e dai giornali. Sono appunto invisibili. Non stupisce quindi che l’opinione pubblica sia per lo più indifferente all’introduzione di leggi più severe ed inasprimenti delle pene, mentre dà per scontato i trattamenti disumanizzanti a cui i reclusi sono sottoposti – stigmatizzati anche più volte dalla Corte europea - che non corrispondono alla sacrosanta richiesta di giustizia, ma alla voglia di punizione e della pena esemplare.

Se analizziamo però i dati della situazione carceraria mondiale, sorgono alcuni interrogativi sulla legittimità di questo approccio. Innanzitutto notiamo che sono le classi più svantaggiate a contribuire maggiormente all’affluenza carceraria creando un pericoloso continuum fra povertà e crimine (Wacquant, 2001). L’incarcerazione di molti giovani adulti va a incidere su quartieri già economicamente svantaggiati e su famiglie in difficoltà ripercuotendosi sulle generazioni successive che avranno mediamente più difficoltà di riscatto.

L’altro interrogativo riguarda i risultati delle più recenti ricerche scientifiche sul tema della recidività. I benefici di approcci umanizzanti alla detenzione sono evidenti e rispondono ai numeri: mentre in Italia il tasso di recidività si attesta al 67%, in paesi come la Danimarca e la Norvegia, dove il sistema carcerario è basato sulla reintegrazione del detenuto, non supera il 20%. Questi dati significano che il carcere di massima sicurezza, con gli ambienti asettici, l’ora d’aria e le celle d’isolamento, ha fallito. Non tanto nell’esecuzione della pena quanto nella condizione più generale e interessante per la società che è la riabilitazione del detenuto. Infatti, la maggior parte di questi è destinata a tornare a vivere nella società, ma lo faranno nella loro versione peggiore, quella che il periodo di incarcerazione ha contribuito a creare.

Le implicazioni etiche sono evidenti: stiamo alimentando un circolo altamente improduttivo. Ma cosa è possibile fare per sanare questi spazi?

Dal punto di vista della Psicologia ambientale ritengo che sia necessario interrogarci su cosa avviene all’interno degli istituti penitenziari, approfondendo qualitativamente quale sia la reale esperienza vissuta giornalmente da prigionieri e staff. Infatti lo scarto fra un ambiente idealizzato ed uno esperito, messo in luce attraverso metodi di post-occupancy evaluation, apre ad una questione sempre più centrale nel dibattito di archittettura: progettare per un ipotetico uomo ideale – l’uomo medio – inteso come un soggetto prototipico che conduce azioni pianificate ed omogenee, magari adottando le soluzioni stilistiche del momento, o per l’uomo comune, con le sue individualità e la sua psicologia?

Come sappiamo dai più recenti studi in merito lo spazio in cui viviamo è troppo influente sulla qualità della nostra vita perché possa essere svilito a rispecchiare le velleità poetiche di un architetto demiurgo i cui preconcetti stilistici possono diventare una prigione che impedisce di relazionarsi con la realtà. Nello specifico caso del carcere l’influenza dell’ambiente costruito è particolarmente significativa poiché i suoi residenti potrebbero non vedere altro ambiente per settimane, mesi o anni, dunque gli effetti positivi o negativi della progettazione, sono enormemente amplificati.

A partire dagli anni’30 alcuni ricercatori hanno iniziato ad interessarsi al problema dell’architettura carceraria in relazione all’esperienza dell’incarcerazione, ma a causa degli enormi interessi economici e sociali la ricerca non è stata continuativa e solo alla fine degli anni ‘80 c’è stato un ritorno di interesse grazie alla Psicologia ambientale. E proprio grazie a questo fondamentale contributo alcuni architetti si sono discostati dai classici modelli di prigione, recinti con filo spinato, celle di cemento allineate su lunghi e stretti corridoi, per sperimentare con concetti spaziali innovativi che in maniera più consona si sposano con i concetti di trattamento umanizzante e le necessità di riabilitazione e reintegrazione del detenuto. Ma analizzando la realtà carceraria mondiale è evidente che la situazione generale sia critica e molto lontana dalle ricerche teoriche sviluppate, anche al di fuori dell’ambito carcerario, come ha ben espresso uno dei più esperti architetti statunitensi in ambito penitenziario:

“Agli istituti penitenziari si sta chiedendo troppo. Di accollarsi il fallimento del sistema giudiziario, del sistema sanitario, del sistema educativo e della società civile, che tutti insieme hanno creato un flusso di cittadini giovani, mentalmente disturbati, tossicodipendenti e asociali verso strutture fatiscenti, non sicure e non salutari”. (Ken Ricci)

Difatti il carcere è da sempre associato a temi quali l’insicurezza, la paura e la violenza. Le ragioni di questa percezione sono ovviamente correlate con i dati statistici che confermano il maggior numero di abusi e di suicidi – per citare solo due delle piaghe che affliggono queste strutture - rispetto alla società esterna. Ma quali sono le ragioni di questa apparentemente inevitabile violenza? Secondo la Teoria della privazione (Sykes, 1958) quando una persona è soggetta ad un ambiente restrittivo alcuni bisogni primari possono venire a mancare e il detenuto può cercare di soddisfarli attraverso comportamenti di adattamento anche scorretti. Queste privazioni, definite pains of imprisonments, includono la privazione della libertà, di beni e servizi, di relazioni sessuali, dell’autonomia e della sicurezza. Ma narrare la vita in carcere come una cultura solamente permeata di diffidenza, paure e aggressione fornisce una visione parziale della situazione.

Più recentemente, infatti, nuovi filoni di ricerca (Crewe, 2014) hanno promosso studi sulla geografia emozionale nelle carceri e sulle aree in cui queste emozioni si manifestano più o meno liberamente, rilevando uno spettro emotivo molto più complesso. Le numerevoli privazioni di cui sopra, infatti, contribuiscono alla creazione di un atteggiamento di diffidenza e alla conseguente strategia di coping di sospensione temporanea della propria identità, precedente all’incarcerazione, per crearne un’altra falsa, più dura e più adatta ad interagire con gli altri detenuti. La necessità di mantenere pubblicamente un certo atteggiamento aggressivo si scontra però con emozioni più intime di ansietà e senso di impotenza (Jewkes, 2005), in una vita vissuta come una continua altalena fra atteggiamenti da frontstage, da dare in pasto all’arena pubblica, e da backstage, che spesso contraddicono i primi (Goffman, 1959). È interessante riportare che oltre ad emozioni percepite nell’ambiente carcerario come inappropriate o negative (dolore, solitudine, vulnerabilità) i prigionieri descrivono la necessità di regolare e reprimere anche aspetti del carattere che sono generalmente ritenuti positivi. Ad esempio mostrare il lato più umano nel prendersi cura di un compagno in difficoltà o aiutarsi nel sostenere le pains of imprisonment. Ne risulta che molti canali emozionali utili alla futura convivenza civile vengono rifiutati e repressi e che il detenuto viva in una condizione di fredda indifferenza dovuta all’attenuazione degli effetti positivi dello spettro affettivo e allo stesso tempo all’amplificazione delle sue frequenze negative.

Una distinzione emotiva così marcata, tuttavia, è difficile da riscontrare negli spazi carcerari che così creano l’impossibilità di sfogarsi liberamente. Ad esempio più persone possono condividere la stessa cella o sono alloggiate in dormitori costringendole ad un comportamento pubblico o semipubblico anche nel loro ambiente più domestico. Le conseguenze di questa tentata o forzata apatia non si fanno attendere e si manifestano in svariati modi. Per la maggior parte sono sfoghi privati, interiori, talvolta tendenti all’autolesionismo, altre volte i prigionieri stemperano l’ansia attraverso l’esercizio fisico in palestra, altri ancora si sfogano con gesti di rabbia nelle zone comuni o sfasciando l’arredo della cella.

Emerge quindi la necessità di assecondare queste necessità di privacy nella progettazione e gestione del carcere attraverso la predisposizione di spazi-rifugio o “luoghi dell’emozione”. Tale è la necessità di recuperare il contatto con le proprie emozioni che Milhaud e Moran (2013) hanno notato come lo spazio di privacy venga trovato talvolta anche nelle zone comuni, come nelle aree workshop, dove l’attenzione costante sul proprio lavoro e/o il rumore dei macchinari permette ai prigionieri una forma di solitudine in cui possono per lo meno essere da soli con i propri pensieri in uno stato di being away.

Un altro spazio emotivamente importante è la sala delle visite. Moran (2013) la descrive come un “liminal space”, uno spazio soglia che rappresenta una forma di fuga dalla vita di tutti i giorni, in cui il prigioniero può sospendere la realtà immediata della carcerazione. Infatti l’introduzione nella prigione di cibo familiare, vestiti e routine interpersonali dal mondo esterno lo trasportano oltre le mura del carcere permettendogli di esprimere le proprie emozioni liberamente.

Le aule didattiche costituiscono anch’esse un rifugio alternativo per le emozioni. Ad esempio, dalla ricerca di Crewe (2014) emerge che nelle classi di cucina e di ceramica i prigionieri condividono esperienze incoraggiandosi l’un l’altro, si prestano ingredienti e materiali senza applicare rigide regole di scambio, si fanno apprezzamenti senza imbarazzi. Nelle lezioni di sociologia e filosofia la veste di studente permette loro di mostrare titubanza, interrogarsi sulle proprie conoscenze e confrontarsi con gli altri senza tensioni o atteggiamenti ostili. In alcuni ambienti del carcere, dunque, la gentilezza, la generosità e l’apertura emotiva sono permesse e rappresentano una temporanea ancora di salvezza dalla privazione sensoriale dell’incarcerazione.

Iniziamo a capire la stretta relazione fra progettazione carceraria e filosofia penale della società che la propone e dunque le sue idee sugli obiettivi di questa istituzione. 

Fra le numerose ricerche svolte negli ultimi anni quelle che hanno portato maggiori contributi alla discussione hanno messo in relazione l’architettura del carcere con la recidività, il suicidio, la tecnologia, l’area di insediamento e la politica N.I.M.B.Y., la violenza, il rapporto fra prigionieri e staff, ma il tema che sembra promettere maggiormente deriva dalla “riscoperta” della similitudine con l’architettura sanitaria. Le similitudini fra ospedali e carceri sono note da tempo, come aveva già notato Foucault. Entrambi, infatti, sono spesso realizzati in edifici di larga scala e sono operativi 24 ore su 24. Entrambi impongono dei comportamenti restrittivi: sono accessibili con limitazioni dai visitatori, sono spazi in cui vivono per un periodo più o meno lungo persone recluse, spesso in stato di isolamento e con possibilità di movimento limitata, in uno stato di completa dipendenza dallo staff e in condizioni di privacy ridotte.

Sebbene tradizionalmente questo paragone sia corretto, da anni ormai nell’ambito sanitario si è imposto un approccio più “umanizzante”, supportato da numerose evidenze scientifiche, mentre le stesse ricerche sono quasi del tutto assenti in ambito carcerario, sia per la difficile replicabilità, sia per la resistenza sociale sulla legittimità di garantire un trattamento curativo ai carcerati. Una delle prime ricerche comparative è stata condotta da Moran (2018) che ha indagato e riscontrato che gli stessi effetti calmanti e rigeneranti dati dal contatto con la natura negli spazi di cura, sono ugualmente verificabili in due prigioni da lei visitate, come sintetizzato magnificamente da un carcerato:

Tutti i detenuti adorano il cortile. Non so se tutti loro se ne rendono conto ma lo adorano veramente. Ad esempio in estate, quando c’è bel tempo, […] la maggior parte di loro si toglie la maglietta e si sdraia sull’erba e rimane là per un’ora, semplicemente godendosela…
(Hans, detenuto)

A dimostrazione delle resistenze sociali e culturali è interessante notare che in molte prigioni la presenza di verde o alberi è limitata per motivi di sicurezza, perché è vista come possibile nascondiglio per armi o contrabbando, strumento di impiccagione o di autolesionismo, ostacolo alla visuale. Nonostante la scala ridotta della ricerca il risultato è incoraggiante per il travaso delle teorie scientifiche fra i due ambiti e suggerisce che la strada intrapresa è corretta.

In un altro illuminante saggio Jewkes (2018) indaga le qualità spaziali dei “Maggie’s center”, i nuovi centri non clinici per la cura del cancro sorti in Inghilterra. Questi sono strutture di supporto alla cura farmacologica, realizzate all’interno del perimetro ospedaliero, nelle quali l’unica medicina è l’architettura. Sono stati ideati durante il trattamento chemioterapico di Maggie Keswick, moglie di Charles Jencks, noto critico di architettura. Entrambi si sono resi conto che l’ambiente senza finestra, illuminato a neon, asettico, creava delle sensazioni di impotenza ed alienazione di intralcio ai trattamenti medici e che “se c’è un’architettura che ti aiuta a sopravvivere, questa non poteva essere quella dei moderni ospedali” (Charles Jencks, 2015).

Questa affermazione riecheggia, forse inconsapevolemente, gli studi di Spivack (in Jewkes 2018) che sostiene che ogni edificio, spazio, stanza, hanno una personalità che dichiara ai suoi abitanti cosa pensa di loro l’istituzione che li ospita e la società nel suo complesso.

Pur essendo ogni Maggie’s center un unicum, progettati da alcuni fra gli architetti più conosciuti al mondo, condividono le stesse caratteristiche spaziali di luminosità, apertura, intimità, viste sull’esterno, connessione con la natura, domesticità. Sostiene Jewkes che questi edifici di enorme successo ci pongono davanti ad un interessante parallelismo. Se questi spazi hanno successo nell’alleviare la cura e ritemprare la mente, può esistere anche un’architettura che favorisca la riabilitazione negli istituti penali?

Secondo Jewkes ci sono caratterisiche ambientali che sono universalmente desiderate dai detenuti. Queste includono: il bisogno di privacy, il bisogno di socialità, il bisogno di libertà di movimento, il bisogno di distrarsi dai problemi giornalieri, il bisogno del contatto con la natura e il bisogno di autonomia. Il fatto che queste, oltre ad altre, distinguano il progetto dei Maggie’s centre dagli ospedali tradizionali fa presupporre che ci siano alcune condizioni ambientali che, a livello generale, innalzino le qualità di vita di tutti gli esseri umani, in particolare di quelli che hanno subito dei traumi.

Il parallelismo è valido anche in merito a chi in questi ambienti ci lavora, spendendoci una porzione di vita molto più lunga rispetto ai pazienti o ai detenuti. Nei Maggie’s i carers sono considerati più importanti dei pazienti stessi perchè se i primi si sentono a proprio agio lavoreranno con più entusiasmo e ciò si rifletterà sui secondi innescando un circolo virtuoso. Il paragone con le guardi carcerarie è calzante. La presenza di spazi adeguati al lavoro da svolgere, in cui si sentano al sicuro da minacce, di spazi per il relax in cui possano trovare momenti di condivisione e di privacy, anche all’aperto, sono elementi fondamentali per dare la motivazione necessaria a svolgere un buon lavoro ed evitare burn-out.

A supporto di questa visione sono anche Nightingale associates, uno dei più grandi studi di architettura d’Europa specializzati in sanità, che collaborava abitualmente con il sistema sanitario nazionale inglese per individuare linee guida e metodologie evidence based.

Questi architetti ritengono infatti che le healthy prison possano produrre gli stessi benefici ottenuti dagli altri ambienti terapeutici e hanno sviluppato, attraverso l’esperienza nell’healthcare, uno strumento fondamentale di supporto alla progettazione: il “sense sensitive design”. Questo metodo, fondato su ricerche in varie discipline, fra le quali in campo medico e psicologico, considera come l’individuo percepisce l’ambiente attraverso i sensi e come questi influenzino i processi psicologici e fisiologici. Di seguito una breve sintesi. 

Tatto

Il tatto è il senso confirmatorio, ovvero che raccoglie informazioni confermando i dati ricevuti dagli altri sensi. È dieci volte più intenso del contatto verbale. Per questo muri e pavimenti - le superfici in generale - dovrebbero avere materiali naturali per evitare confusione percettiva e rassicurare la persona sulle caratteristiche dello spazio. Ad esempio si dovrebbero evitare finiture effetto legno su porte metalliche perché poi la porta risulterà inaspettatamente pesante e fredda al tatto. 

Udito

Il suono percepito come un rumore ha implicazioni sulla salute come l’incremento del battito cardiaco, della pressione, della respirazione e del colesterolo. Le prigioni sono soundscape (Hemsworth, 2016): in un ambiente dove vige il silenzio, il suono diventa una delle esperienze principali attraverso cui è vissuta la detenzione ed è attraverso di esso che il detenuto chiuso nella cella cerca di farsi un’idea di quello che c’è fuori e comunica con gli altri, vivendo spesso con le orecchie tese in attesa di un segnale (il suono dei passi delle guardie, il rumore della porta della cella, il ticchettio di un vicino di cella che vuole comunicare, ecc.). Per questi motivi il suono è uno degli aspetti a cui il detenuto è più sensibile ed il rumore uno dei problemi più rilevati. I problemi insorgono allorché i residenti non hanno controllo sulla sorgente del rumore e tendono a mostrare segni di stress (le comunicazioni diventano difficili, il sonno è disturbato, nasce una competizione sul controllo dello “spazio sonoro”) (Hemsworth, 2016). La soluzione consiste nel limitare le sorgenti rumorose ed intervenire sull’ambiente, magari con pannelli fonoassorbenti, e sull’arredo, evitando l’uso di materiali riflettenti. 

Olfatto

Attraverso l’odore è possibile influenzare il comportamento, la percezione e la motivazione. Il profumo può far rilassare i muscoli e aiutare la concentrazione, mentre il cattivo odore può incrementare il battito cardiaco. Negli istituti penitenziari, dove le finestre sono spesso chiuse e piccole, e l’igiene è scarsa, la qualità dell’aria è essenziale. 

Vista

La mancanza di contatto visivo con l’esterno alimenta i livelli di depressione e ansia. Oltre a ciò, molti carcerati sviluppano problemi di vista poiché l’occhio non è adeguatamente stimolato nella messa a fuoco vicino-lontano: lo sguardo spaziando entro pochi metri piano piano perde il senso della profondità. Ma non è solo la percezione della distanza a svanire: a poco a poco si riduce anche la percezione dei colori in ambienti troppo grigi (Wener, 2012). In situazioni ambientali limitate e monotone, quindi, una vista verso l’esterno e ampie finestre rappresentano una boccata d’ossigeno. 

Gusto

Il procurarsi, cucinarsi e mangiare cibo sono attività umane universali e rappresentano una delle più fondamentali caratteristiche dell’essere umano. La qualità del cibo e dell’atto stesso del cibarsi è simbolica per la considerazione di se’ del carcerato e può essere sfruttata come fulcro per creare un più ampio senso di comunità. I momenti dei pasti è bene che siano vissuti in comune in modo che l’attività assuma lo stesso valore sociale che ha nella vita esterna. Ad esempio il cibo può far avvicinare etnie o gruppi eterogenei dando ai prigionieri un ulteriore momento di confronto e di discussione. Per questa ragione devono essere predisposti spazi appropriati, organizzati in micro aree dove i piccoli gruppi possano autonomamente gestirsi, preparare e mangiare i loro pasti. Da queste e molte altre ricerche sono state ricavati tre principi guida fondamentali ed interconnessi che caratterizzano le discussioni sulle teorie penali contemporanee: normalizzazione, apertura, senso di responsabilità.

La normalizzazione ha come obiettivo quello di avvicinare quanto più possibile la vita all’interno con la vita all’esterno del carcere. Questo significa che la sicurezza è riposta meno su muri di cinta e sbarre e più sulla fiducia di autodisciplina del detenuto. Solo se il prigioniero è considerato pericoloso o a rischio fuga è posto in un carcere con un livello di sicurezza superiore.

Apertura significa che il detenuto è regolarmente esposto alla vita fuori dal carcere, sia tramite visite di parenti ed amici che permessi di libera uscita.

Il principio di responsabilità implica che il detenuto assuma piena responsabilità per se stesso e per gli altri, come accadrebbe fuori dal contesto carcerario. Gli sono forniti tutti gli strumenti per condurre una vita con le stesse opportunità dei cittadini liberi, come stipendio in caso di attività lavorativa o istruzione in caso di volontà di studio, quando possibile includendolo in strutture aperte alla comunità.

Sono stati inoltre introdotti nella discussione concetti che promuovono la realizzazione di healthy prison, ovvero di luoghi predisposti alla cura e alla riabilitazione. I primi esempi che si vedono in Europa, come la prigione di Halden in Norvegia o le spagnole Puig de les Basses e Mas d’Enric, sono connotati da ambienti che ispirano fiducia, dignità e sicurezza, favoriscono le relazioni fra prigionieri e staff, e incoraggiano la realizzazione individuale. I risultati sono promettenti e quindi meritevoli di essere perseguiti, nonostante ci sia chi contesta il fatto che il concetto di healthy prison, al di là della sua realizzazione architettonica, resterà un ossimoro finché non saranno eliminate determinanti strutturali e sociali, come il sovraffollamento, situazioni di stress e pregiudizi (De Viggiani, 2007). 

Come esposto, la progettazione di un istituto di pena richiede un approccio umanistico che pochi altri tipi di architettura pubblica necessitano. Date le pessime condizioni dei carceri ed il promettente filone di ricerca speriamo che la Psicologia architettonica continui ad interessarsi all’argomento e qualora si evidenzino risultati condivisi dalla maggioranza della comunità scientifica, auspichiamo che questi costituiscano in breve tempo normativa. Occorre, infatti, riportare ad un livello dignitoso la vita di queste persone che per il Diritto, ricordiamo, dovrebbero essere private solo della libertà di movimento, ma abbiamo visto che le privazioni sono ben superiori. La realizzazione di spazi “normalizzati” ed “umanizzanti” contribuirà alla dismissione dello stereotipo del carcere come è stato per secoli, e attraverso questa contribuirà anche alla riabilitazione della figura del detenuto, non più visto come una persona meritevole di vivere in un ambiente disumano. Se questo avverrà sarà la comunità nel suo complesso a guadagnarne.

 

Riferimenti

  • Crewe B., Warr J., Bennett P., Smith A. (2013). The emotional geography of prison life. Theoretical criminology 18(1):56-74.
  • De Viggiani N. (2007). Unhealthy prisons: exploring structural determinants of prison health. Sociology of Health & Illness Vol. 29 No. 1 2007, pp. 115–135.
  • Goffman E. (1959). Presentation of self in everyday life. New York, NY: Anchor Books.
  • Hemsworth K., (2016). ‘Feeling the range’: emotional geographies of sound in prisons. Emotion, space and society, volume 20, august 2016, pages 90-97.
  • Jencks C. (2015). The architecture of hope: Maggie’s cancer caring centres. London, England, Frances Lincoln.
  • Jewkes Y. (2005). Men behind bars: ‘doing’ masculinity as an adaptation to imprisonment. Men and Masculinities, 8(1), 44-63.
  • Jewkes Y. (2018). Just design: healthy prisons and the architecture of hope. Australian & New Zealand Journal of criminology vol. 51, issue 3, pp. 319 – 338
  • Milhaud O., Moran D. (2013). Penal space and privacy in French and Russian prisons. In Moran, D., N. Gill et D. Conlon (dir.), Carceral Spaces: Mobility and agency in imprisonment and Migrant detention. Farnham: Ashgate.
  • Moran D. (2013). Between outside and inside? Prison visiting rooms as liminal carceral spaces, GeoJournal 78(2): 339–351.
  • Moran D., Turner J. (2018). Turning over a new leaf: the health-enabling capacities of nature contact in prison. Social Science & Medicine.
  • Sykes, G. M. (1958). The society of captives: a study of a maximum security prison. Princeton, NJ: Princeton University Press.
  • Wacquant, L. The penalisation of poverty and the rise of Neo-liberalism. European Journal on Criminal Policy and Research 9, 401–412.
  • Wener R. (2012). The environmental psychology of prisons and jails: creating humane spaces in secure settings, Cambridge: Cambridge University press.