La centralità del corpo

di ELENA LUCINI
psicologa, psicoterapeuta

La psicologia ambientale è una disciplina che a tuttʼoggi si divide tra la ricerca scientifica, troppe volte chiusa in laboratorio, e la pratica applicativa, troppe volte lasciata in secondo piano. Quello che mi interessa è lo spazio intermedio che, come un Giano bifronte, si nutre di vita reale, di persone nel quotidiano, di luoghi e che dovrebbe da un lato fornire alla ricerca le idee e il materiale di studio, dallʼaltro mettere a disposizione, operativamente, strumenti e indicazioni molto pratiche. Professionalmente nasco come psicoterapeuta e ho sempre pensato che la parola fosse il fulcro del mio lavoro relegando sullo sfondo il ruolo del corpo. Questo strano periodo che ha connotato lʼanno che abbiamo attraversato e che ancora, in qualche modo, stiamo attraversando ha posto questioni e ridefinito i pensieri. Ha riportato il corpo, attraverso la sua assenza, alla ribalta restituendogli tutta la centralità che gli compete. Interagire con il paziente, o con chiunque altro, attraverso lo schermo ci priva dei gesti, della direzionalità dello sguardo, del senso comunicato di prossimità o distanza, di tutto quel racconto che, attraverso il linguaggio del corpo, ben oltre la parola, ci dice dellʼaltro e del suo stato dʼanimo. Il corpo entra di prepotenza non solo nella dimensione relazionale delle nostre vite con tutto quello che è il linguaggio non verbale ma è anche fattore fondante della nostra percezione, dei nostri processi cognitivi, delle nostre plurime intelligenze sociali. La nostra capacità di riconoscere le caratteristiche fisiche di un oggetto e di valutarle è direttamente connessa al nostro possedere un corpo che ci ha fatto sperimentare e conseguentemente insegnato cosa siano il peso, la forza, la contrazione ecc... è solo grazie al fatto che possediamo un corpo, e alla relazione che questo instaura con la mente e con la materia, che siamo in grado di avere una comprensione cognitiva del mondo. Quando guardiamo il mondo, che sia la nostra stanza o il paesaggio, lo facciamo sempre da una prospettiva soggettiva che è data dal nostro vissuto pregresso e dal suo colore emotivo, la nostra conoscenza non è astratta ed intellettuale ma fisica, esperienziale, mette in gioco tutti e cinque i sensi, costruisce la nostra storia. Muovendoci costruiamo mappe dello spazio che ci circonda sulla base delle potenzialità motorie espresse dal nostro corpo. Solo col corpo, e non sulla carta o in un video, impariamo a misurare realmente lo spazio, che non è fatto di centimetri o metri, ma di gesti che divengono possibili, fluidi o impediti, gradevoli o sgradevoli. Solo grazie alla nostra pregressa esperienza, come ci hanno dimostrato i neuroni a specchio, cogliamo il gesto dellʼaltro, e tutto il suo portato emotivo, costruendo la possibilità di una relazione empatica. Nella nostra società la visione ha un ruolo egemonico a scapito degli altri sensi e più in generale degli spazi e della corporeità di chi li abita. Per molte società lʼaspetto del corpo in azione è centrale nella trasmissione della cultura, si pensi ai riti iniziatici e alle danze tribali che attraverso la drammatizzazione di qualcosa, la paura ad esempio, fanno si che quel qualcosa diventi reale e superabile. Il corpo è anche quello che da la misura del bisogno, della fruibilità, pensiamo a tutti gli utensili di lavoro, la cui ergonomia non nasce certo dalla ricerca della forma ma dalla conoscenza del gesto. Nel momento in cui andiamo a progettare qualcosa, che sia un oggetto, uno spazio, un percorso, un paesaggio, o addirittura un servizio, non possiamo prescindere dalla dimensione del corpo, dalle sue potenzialità conservate, perse o mai avute. La perdita di una funzione precedentemente posseduta, a seguito di incidente o di malattia, va comunque sostenuta, ma conserva la memoria, legge un racconto comune. Una costruzione di storia avvenuta in assenza di funzione, come la cecità dalla nascita o una disabilità motoria innata, determinano la costruzione di una capacità di esperire diversa che va interpretata e compresa, la sua ricchezza si coglie solo per differenza, ponendosi in una posizione di ascolto attento e profondo. Si progetta per qualcuno e per qualcosa. Credo che non si possa più prescindere da una progettazione all inclusive che, tenendo conto della comune matrice che sembra connotarci come specie anche a livello percettivo, valuti le possibilità dei corpi, anche quando ne sia conservata solo parzialmente la potenzialità, o quando una diversa storia esperienziale racconti potenzialità diverse.